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Il Viminale riabilita il poliziotto e lo 007 condannati per il caso Shalabayeva

Claudio Terzi
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Che il nostro sia un paese strano in materia di Giustizia ne avevamo certezza ma che fosse addirittura incapace di leggere delle carte evidenti ed oggettive questo, francamente, mette paura. È il 29 maggio del 2013 quando le forze della polizia prelevarono Alma e Aula Shalabayeva dalla loro abitazione di Casal Palocco e, dopo un velocissimo iter giuridico-amministrativo, vennero caricate su un aereo privato, messo a disposizione dalle autorità di Astana (oggi Nur-Sultan il nome della capitale del Kazakistan) e con l’accusa di possesso di passaporto falso rimpatriate. Il fatto divenne uno scandalo internazionale in quanto la moglie e la figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, furono espulse dall’Italia senza alcuna valutazione del Viminale. Come è possibile che un paese come l’Italia possa tollerare un simile atteggiamento violento da parte di un corpo dello Stato? Così in un batter di ciglia due uomini delle istituzioni come Renato Cortese e Maurizio Improta insieme ad altri tre funzionari ed un giudice di pace vengono messi nel mirino mediatico-giudiziario e letteralmente massacrati. Ma chi sono Renato Cortese e Maurizio Improta? Renato Cortese soprannominato il «cacciatore» all’epoca dei fatti era il Questore di Roma: laureato in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma la sua carriera nella Polizia è sempre stata in prima linea. Cortese, prima di dirigere la Squadra mobile di Reggio Calabria, è passato per il Servizio centrale operativo e ha guidato la sezione catturandi della Mobile di Palermo. In Sicilia, coi suoi uomini, ha scovato ricercati del calibro di Gaspare Spatuzza, Enzo e Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Benedetto Spera e Salvatore Grigoli. Ma la preda più ambita del suo «curriculum» resta il padrino di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, catturato a Corleone l’11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza. «Quando lui sparì dalla circolazione, io non ero ancora nato», raccontò Cortese dopo il blitz, giunto al termine di 42 giorni e notti d’appostamenti e otto anni di indagini massacranti.

 

 

Maurizio Improta ex Questore di Rimini, dove tutti lo ricordano con grande stima, è prima di tutto figlio d’arte. Il padre Umberto, morto nel 2002 a soli sessantanove anni, aveva diretto la questura di Milano e la prefettura di Napoli, dopo essersi occupato per anni di terrorismo. Alla fine degli Anni ’80 Maurizio Improta aveva iniziato a seguire la carriera del padre, partendo dai servizi di sicurezza interni. Una passione, quella per l’intelligence, che ha mantenuto, continuando a collaborare con la rivista del Sisde. Dal Sisde passò alla Criminalpol del Lazio, per poi continuare la carriera nella questura di Roma: Squadra mobile (dal 1999 al 2002), ufficio stampa e pubbliche relazioni, fino ad arrivare alla segreteria particolare del questore. Già capo della mobile di Padova dove ha smantellato definitivamente la mala del Brenta all’epoca dei fatti Maurizio Improta era a capo dell’Ufficio immigrazione della Capitale. Cortese e Improta due uomini che sempre hanno servito con devozione le istituzioni ma questo non è bastato nel nostro paese ad avere quella attenzione necessaria per almeno indagare con precauzione . In Italia spesso la Giustizia diventa terreno di scontro tra procure per governare un potere. E così probabilmente è accaduto. Cortese e Improta nell’ottobre 2020 vengono condannati a cinque anni di carcere insieme ad altri quattro funzionari di polizia e un giudice di pace per sequestro di persona e falso documentale. Accuse gravi che macchiano per sempre l’onore di chi invece ha scelto di servire lo Stato, da poliziotto o da giudice. «La donna», hanno scritto i giudici «non doveva essere espulsa e meno che mai con la figlia di sei anni, perché era noto che il marito fosse un dissidente, ricercato in patria per motivi politici oltre che protetto dallo status di rifugiato politico». Sentenze e motivazioni che parlano chiaro. Peccato però che la risposta del Viminale a due interrogazioni a firma Caterina Licatini, del M5s, e Maurizio Gasparri di Forza Italia, ribalti la sentenza gettando ombre sull’operato della Magistratura.

 

 

Innanzitutto Ablyazov non fu mai rifugiato politico ed era ricercato per crimini commessi in diversi paesi. Ablyazov non era nè un dissidente politico e neanche un rifugiato politico ma un semplice criminale ricercato per gravi reati finanziari. E con questo quadro fornito dai ministeri dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri riguardo a Mukhtar Ablyazov cambia radicalmente la posizione dei super investigatori condannati . Quanto si delinea adesso è che non solo Ablyazov non possedeva alcun permesso valido per stare in Italia, ma anche che la sua presenza sul territorio nazionale risultava da una nota pervenuta dall’Interpol di Astana con cui si comunicavano le ricerche in atto per i reati di truffa e appropriazione indebita di grosse somme di denaro. Ablyazov non è mai stato un richiedente asilo. Una vicenda che rende ancora più grottesca la sentenza nei confronti di Cortese, Improta e altri eccellenti servitori dello Stato per l'espulsione della Shalabayeva, ritrovata dalle autorità in possesso di passaporto con evidenti segni di contraffazione. «Un’accusa incresciosa, rivolta a uomini che hanno dedicato la vita alla lotta contro la criminalità», commentano i deputati firmatari della interrogazione parlamentare. «Ci auguriamo, che i dati che dimostrano i trascorsi e gli intenti criminali di Ablyazov, contribuiscano anche a riabilitare tutti coloro che hanno dovuto subire un’ingiusta condanna per i compiti svolti con decoro nell’esercizio delle proprie funzioni». A tutto questo si poteva sicuramente arrivare prima in quanto esisteva un accordo fra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica del Kazakhstan di cooperazione nel contrasto alla criminalità organizzata; su queste basi si mosse la segnalazione della presenza in Italia non di un dissidente o rifugiato politico ma di un ricercato dalla Interpol come Ablyazov. Ma c’è dell’altro. Per quale motivo in modo così repentino l’indagine è passata a Perugia ? Le indagini sulla vicenda «Shalabayeva» restano alla Procura di Roma fino al 2016, poi vengono trasferite a Perugia perché tra gli indagati c’è un giudice di pace della Capitale che ha «attratto» la competenza in Umbria. Sempre a Perugia vive Madina Shalabayeva, sorella maggiore di Alma nonchè moglie di un altro oligarca riparato in Svizzera, Ilias Krupanov, che nel 2014, poco dopo i fatti, aveva già presentato a Perugia una denuncia per sequestro di persona. Il pm che riceve la denuncia di Madina Shalabayeva e che poi nel 2016 attrae da Roma l’indagine sui poliziotti si chiama Antonella Duchini, successivamente indagata a Firenze e trasferita dal Csm. Tutti dettagli che poi troveranno spazio e una loro «lettura» nel libro di Luca Palamara «Il Sistema». E se dietro la condanna dei poliziotti ci sarebbe, anche, una delle tante guerre tra toghe per gelosie o per la conquista di ruoli apicali? Di una cosa si deve essere certi che dopo la risposta del Viminale sullo status di Ablyazov il processo di appello nei confronti di Improta e Cortese deve subire un cambio di rotta.

 

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