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La deriva gender che vieta pure di usare la lingua italiana

Benedetta Frucci
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Il regime fascista si dedicò ad opere di bonifica imponenti: dalle paludi dell’agropontino, al linguaggio. La dittatura mussoliniana, come tutti i totalitarismi, fece grande attenzione alle parole: avvió una grande campagna per imporre l’italianizzazione dei nomi ma anche per cancellare l’utilizzo del «lei», accusato di essere eccessivamente femminile e sostituendolo con il Voi. Qualche giorno fa, quasi un secolo dopo, su Instagram è diventato virale un post, un «vademecum del* giornalist* inclusivo» che spiega come il cronista debba scrivere di transessualità senza risultare offensivo. È vietato utilizzare il nome precedente alla transizione del soggetto. È obbligatorio utilizzare i giusti pronomi ed è vietato definire «ex moglie» un uomo trans, che va invece chiamato «ex marito» perché quel che conta è unicamente la sensibilità di chi ha compiuto la transizione, non quella del coniuge i cui traumi sono del tutto irrilevanti. Non si può neppure - pare - utilizzare il termine trans come sostantivo, essendo esso un aggettivo. Non si può legare l’identità di genere alla propria volontà: vietato scrivere che Marco vuole diventare Marta. Assolutamente obbligatorio l’uso degli asterischi al posto delle vocali che indicano il genere, perché per l’estremismo progressista ormai è peccato pure utilizzare la lingua italiana.

 

 

Il dolore intimo e fisico di chi compie un percorso di transizione viene utilizzato come leva per censurare il linguaggio. Colpire le parole, infatti, significa censurare le notizie e creare una narrazione per cui, citando Orwell, «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza». Fino a giungere a chiedersi: «In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?». Nelle carceri californiane sta accadendo qualcosa di singolare e simile. Le detenute si sono viste distribuire preservativi e opuscoli sull’interruzione di gravidanza, come se il carcere fosse un liceo e le prigioniere fossero studentesse esposte a rapporti sociali con l’altro sesso. In realtà, il motivo di tale apparente bizzarra decisione è da ricercare nell’arrivo di detenute trans, che non hanno completato il percorso di transizione ma che, grazie alla legislazione californiana, possono dichiararsi «donna» e ottenere immediatamente un trattamento conseguente. Insomma, le autorità californiane hanno ritenuto che, per rispettare i dogmi del politically correct, si potesse accettare l’ipotesi di violenza sessuale ai danni delle detenute, come se l’habeas corpus fosse un principio in disuso, e che l’unica soluzione fosse spiegargli come e quando abortire.

 

 

Il campanello d’allarme suona ancor più forte quando si pensa che perfino la scienza si tara su questo appiattimento ideologico, con prese di posizione politiche più che mediche, che spingono a sostenere, come nel caso del Journal of Medical Ethic’s, che sia necessario togliere la patria potestà ai genitori che si rifiutano di far intraprendere un percorso di transizione di sesso nei bambini. Non solo quindi una valutazione ideologica viene spacciata per scienza, ma anche basata su un dato assolutamente incerto, cioè quello secondo cui nel bambino sarebbe già definita l’identità di genere. Il problema non sono tanto posizioni come queste, ma la forza sempre più imperante della cancel culture che impone ai media di censurare il dibattito e che come i peggiori regimi cancella gli oppositori. La buona notizia è che, proprio negli Stati Uniti dove ha messo radici e preso forza, gli stessi democratici si sono accorti del pericolo costituito dell’ala «liberal» del partito. Il Presidente Joe Biden, in vista delle elezioni di Mid-Term, teme che il lasciare troppo spazio agli estremisti woke gli possa costare, addirittura, la riconferma.

 

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