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Scandalo in Vaticano, il cardinale Becciu a processo: "Magistrati porci". Soldi della carità ad amici e parenti

Valeria Di Corrado
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I soldi per le opere di carità del Papa sono stati dirottati nelle tasche di speculatori senza scrupoli, amministratori corrotti e alti prelati che hanno fatto della cupidigia la loro religione di vita. L’inchiesta scaturita dall’acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra, con i fondi dell’Obolo di San Pietro, è chiusa. Era stata avviata a luglio 2019 su denuncia dell’Istituto per le Opere di Religione e dell’Ufficio del Revisore Generale. Dieci persone verranno processate davanti al Tribunale della Città del Vaticano, presieduto da Giuseppe Pignatone (ex procuratore capo di Roma). La prima udienza è il 27 luglio. Gli imputati sono: l’ex sostituto della Segreteria di Stato, cardinale Angelo Becciu (per il quale il Papa il 19 giugno ha dato l’assenso al processo), accusato di peculato, abuso d’ufficio e subornazione; il suo ex segretario monsignor Mauro Carlino, accusato di estorsione e abuso d’ufficio; la donna di fiducia di Becciu, Cecilia Marogna, accusata di peculato: in 22 mesi ha depositato sui suoi conti 103mila euro in contanti; l’ex direttore dell’Autorità di supervisione finanziaria del Vaticano (Aif) Tommaso Di Ruzza, accusato di peculato, abuso d’ufficio e violazione del segreto d'ufficio; l’ex presidente dell’Aif René Brulhart; il funzionario della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi; l’ex gestore delle finanze vaticane Enrico Crasso; l’avvocato Nicola Squillace; i finanzieri Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi; oltre a 4 società: una slovena della Marogna, verso cui sono confluiti 575mila euro, e le altre 3 riconducibili a Crasso.

 

 

«La gran parte delle attività di investimento effettuate nel corso degli anni da soggetti di diversa formazione, status e responsabilità nella Segreteria di Stato - si legge nel decreto di citazione in giudizio firmato dal Promotore di Giustizia Vaticano Gian Piero Milano e dall’Aggiunto Alessandro Diddi - è avvenuta drenando ingenti quantità di somme raccolte nell’Obolo di San Pietro». Dalle indagini svolte dalla Gendarmeria in stretta collaborazione con la Procura di Roma e il Nucleo capitolino di Polizia economico-finanziaria della Finanza, emerge «un intreccio, quasi inestricabile, tra persone fisiche e giuridiche; fondi di investimento; titoli finanziari (quotati e non); banche e istituti di credito di varia tipologia». Con lo scopo di «attingere alle risorse economiche della Santa Sede, spesso senza alcuna considerazione delle finalità e dell’indole della realtà ecclesiale».

Tutto comincia dagli investimenti (a perdere, secondo i magistrati) fatti dalla segreteria di Stato con Raffaele Mincione e dall’idea del Vaticano di uscire dall’impasse lasciando al finanziere italo-svizzero la parte mobiliare e dirottando i soldi investiti nell’acquisto dell’immobile di Londra. Mincione avrebbe attribuito al palazzo di Sloane Avenue «il valore, del tutto ingiustificato, di 230 milioni di sterline a fronte di una valutazione di poco precedente pari a 129 milioni», ottenendo «un ingiusto profitto con danno per la Segreteria di Stato per un importo complessivo di 78,9 milioni di euro» per consentire alla Santa Sede di uscire dalle operazioni reputate non più convenienti. Mincione «ha trovato nella Segreteria di Stato il polmone finanziario a cui attingere ossigeno per saldare i conti con Enasarco», si legge nel decreto di citazione. «In concomitanza con l’operazione di Londra, anche un altro palazzo, già oggetto di altro investimento tossico di Enasarco, veniva rigirato al Vaticano». Si tratterebbe del Palazzo delle poste di Budapest. «Il modus operandi» di Mincione «era noto all’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, il quale ha ritenuto, ciononostante, di affidare alla sua gestione 200 milioni di dollari senza alcuna cura di circondare l’operazione di quelle minime cautele che anche la più sprovveduta delle persone avrebbe cercato di attuare».

 

 

Le indagini, svolte anche con rogatorie in Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna, Jersey, Lussemburgo Slovenia, Svizzera, è «direttamente collegabile alle indicazioni e alle riforme di Sua Santità Papa Francesco, nell’opera di trasparenza e risanamento delle finanze vaticane; opera che è stata contrastata da attività speculative illecite e pregiudizievoli sul piano reputazionale», spiega il bollettino diffuso dalla sala stampa della Santa Sede. D’altronde il Pontefice aveva in qualche modo preparato il «terreno» per Becciu, quando lo scorso aprile ha modificato l’Ordinamento giudiziario del Vaticano togliendo l’esclusività di giudicare i cardinali alla Corte di Cassazione. Ora, quindi, pure il Tribunale vaticano (composto da laici) può processare un cardinale, con l’assenso del Papa. Dalle carte dell’accusa emerge come si sia tentato di usare lo Ior per un «lavaggio di denaro» a carattere internazionale. Il 4 marzo 2019, infatti, la Segreteria di Stato, con una lettera firmata dal cardinale Pietro Parolin, «richiedeva al presidente del Consiglio di sovrintendenza dello Ior un finanziamento di 150 milioni di euro a copertura di investimenti fatti», nonostante l’Istituto bancario non sia autorizzato a concedere prestiti. Eppure l’Aif, tramite l’allora direttore Tommaso Di Ruzza, ha suggerito «persino come aggirare gli eventuali ostacoli frapposti alla realizzazione dell’operazione». Di Ruzza è lo stesso che avrebbe usato in modo irregolare bancomat e carta di credito assegnatigli per le spese lavorative fuori sede. Dal 2015 al 2019, per tutta la durata del suo mandato, ha speso oltre 25mila euro in ristoranti, forni, tavole calde e bar. Ha pagato il 26 maggio 2015 un ristorante a Sperlonga per 120 euro e il noleggio di un charter nautico per 720 euro; un mese dopo con la stessa carta ha saldato il conto in un altro ristorante di Fiumicino.

Secondo quanto riferito agli inquirenti da nonsignor Alberto Perlasca, per anni capo dell’Ufficio amministrativo della I sezione della Segreteria di Stato, Becciu avrebbe favorito suo fratello Antonino (titolare della cooperativa Spes), a cui la Segreteria ha versato 225mila euro e il fratello Francesco, titolare di una falegnameria in Sardegna, a cui è stato affidato senza gara l’incarico di rifare le finestre della Nunziatura in Egitto. «Tra l’altro - precisa Perlasca - questo fratello ha pure sbagliato le misure, per cui hanno dovuto rifarle tutte». Dal 2011 al 2018 la ditta del parente del cardinale ha emesso anche 5 fatture per un totale di 112mila euro «per lavori svolti nell’Arcidiocesi di Luanda, in Angola». Nel gennaio 2019, quando la Segreteria di Stato è chiamata a pagare la seconda tranche alla società della Marogna, Perlasca scrive a Becciu: «Eminenza, buongiorno. Il Sostituto (Pena Parra, ndr) mi fa difficoltà per l'invio dei soldi da lei chiesto. Forse è bene che lei gli parli». «Ma gli aveva parlato il Papa! - gli risponde Becciu - Ma devi chiedere ogni volta a lui l’autorizzazione? Non bastava che avessi la mia?». Peccato che in quel momento il cardinale sardo «non poteva disporre in alcun modo di somme di denaro della Segreteria di Stato», in quanto non ricopriva più l’incarico di Sostituto. Becciu è accusato anche di aver interferito con le indagini penali a suo carico: «Al momento giusto bisognerà fare una bella campagna stampa! Chieda al suo avvocato se è il caso di sbugiardare subito i nostri magistrati», scrive a Crasso il 23 gennaio 2020. «Emerge il profondo disprezzo nutrito dal Cardinale nei confronti dei componenti di questo ufficio, da lui definiti "porci" dopo aver saputo che avevano fatto cenno alla vicenda Marogna». 

 

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