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Anche Victoria's Secret aderisce al pensiero unico: si piega l'ultimo baluardo di femminilità

Benedetta Frucci
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La perfetta combinazione di diritti e libertà è la chiave delle democrazie liberali: un equilibrio fragile, che può essere facilmente rotto. Ed è ciò che sta accadendo nei Paesi anglosassoni dove, sotto la spinta di quella che è una vera e propria cultura integralista, le minoranze, lungi dall’esercitare la giusta e sacrosanta pretesa al rispetto delle garanzie e dei diritti di cui godono nei sistemi occidentali, tentano di imporre un pensiero unico. E così, nelle università d’oltremanica e d’oltreoceano, si processano filosofi e leader del passato con l’accusa di essere razzisti, sessisti, omofobi. In nome della cosiddetta cancel culture, si abbattono statue, si censura il linguaggio, si arriva a chiedere il licenziamento di docenti non allineati. Ma la cancel culture mira a colpire anche e soprattutto la donna nella sua femminilità. I cromosomi, la genetica, sono diventati irrilevanti nel definire il sesso e lo sono però quando si parla di malattie genetiche del feto: l’Islanda si è proposta solo qualche anno fa di diventare «Down Free», in Olanda si può chiedere dalle pagine di un quotidiano di far pagare una multa a chi partorisce disabili, perché peserebbero sulla società. E questo non ha nulla a che fare con il diritto all’aborto, ma assomiglia più all’eugenetica di nazista memoria. Come ogni pensiero illiberale, poi, la componente moralista diviene preponderante: il corpo della donna diventa un bersaglio.

 

 

La bellezza conformista è un peccato - Si è iniziato nelle passerelle d’alta moda, dove i corpi arrivano a una magrezza del tutto innaturale e malata e dove qualsiasi forma viene guardata con disprezzo. Poi, si è esagerato con l’esaltazione dell’obesità patologica.

La donna sana, comune, non è à la page - Pochi giorni fa, anche l’ultimo baluardo della femminilità, Victoria’s Secret, è caduto. L’azienda, guarda caso vicina al fallimento, ha deciso di mandare in pensione i famosi Angeli, sostituendoli con donne che hanno brillato nei loro campi: una calciatrice attivista per i diritti Lgbt (Megan Rapinoe), una sciatrice asiatica, una modella plus-size e via dicendo. L’episodio non è da sottovalutare: l’estremismo progressista infatti condiziona anche il mercato. Le aziende mettono in atto da anni strategie di advocacy su temi quali l’ambiente, l’inclusività, la lotta al razzismo. Un approccio stimabile, che porta i brand ad assicurarsi fette di mercato e guadagni ma che allo stesso tempo sensibilizza la popolazione su tematiche sociali. Grazie a questo meccanismo, però, si è creato un cortocircuito pericoloso: da un lato infatti, assecondare i gruppi di pressione iperprogressisti porta successo, dall’altro, allontanarsi dal loro messaggio, non solo contraddicendolo ma limitandosi ad ignorarlo, porta al serio rischio di chiudere. È quello che è successo alla blogger di Man Repeller, sito di riferimento nell’ universo del fashion e del life style: la sua creatrice, Leandra Medine, femminista, è stata costretta a ritirarsi e il blog a cambiare faccia. L’accusa? Troppi bianchi nel suo team e la diffusione di uno stereotipo di donna bianca e benestante. Il fenomeno è serio e non può essere sottovalutato: se da un lato da solo è sufficiente a incrinare la libertà di espressione, mercato, pensiero, baluardi dell’Occidente, dall’altro rischia di suscitare una reazione opposta nell’opinione pubblica dei Paesi continentali, soffiando sul fuoco di un sovranismo reazionario e altrettanto oscurantista ormai avviatosi al tramonto nell’Europa occidentale, ma ben radicato e potente nell’Est.

 

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