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Caso Saman Abbas, integrazione e Islam faticano a convivere in paesi come l'Italia

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Riccardo Mazzoni
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La Grande Moschea di Roma e la Confederazione islamica italiana stanno valutando di costituirsi parte civile nel processo ai responsabili del delitto di Saman Abbas, ed è un passo sicuramente significativo. Anche la comunità pakistana di Campagnola, sunnita, ha duramente condannato il raccapricciante delitto denunciato dal fratello minore della ragazza, e il suo portavoce ha assicurato che il padre non ha mai frequentato i centri culturali islamici del luogo desumendo che, in quanto sciita, probabilmente per le sue preghiere si recava a Carpi. E dunque, in quale centro culturale si indottrinava la famiglia Abbas? Davvero l’esecuzione della figlia non ha motivazioni di natura religiosa, ma rimanda a tradizioni ancestrali e tribali “importate da contesti lontani, misogini e sessisti”, come sostiene la Confederazione islamica? Oppure questa terribile vicenda è anche il frutto avvelenato della predicazione di qualche imam fondamentalista?

 

 

Che esista un problema di integrazione dell’Islam in Europa non è una narrazione interessata, è la semplice constatazione di quanto è avvenuto nei Paesi che ci hanno preceduto sul piano dell'accoglienza degli immigrati (Gran Bretagna, Olanda, Francia), che oggi si ritrovano in casa una serie di ghetti etnici, confessionali e identitari – le banlieues di Parigi, ad esempio - dove anche giovanissimi di terza generazione percepiscono l’Occidente come una terra ostile.

 

 

Ma in Italia tutti i governi della sinistra hanno sconsideratamente aperto le porte a un'immigrazione incontrollata, ponendo così le basi per un’Italia multietnica e senza regole. Non a caso il governo rossogiallo col decreto immigrazione di dicembre ha dimezzato i tempi per ottenere la cittadinanza italiana, cancellando le leggi di Salvini. Un colossale errore ideologico, molto più dello ius soli che Letta non perde occasione per rilanciare. La cittadinanza è infatti il simbolo più identitario dell'appartenenza a una nazione e deve quindi costituire la fine del percorso di integrazione, non certo un mezzo per favorirlo. Basti fare l’esempio del padre assassino di un’altra giovane pakistana, Hina Saleem, sgozzata nell'estate del 2006 per aver scelto uno stile di vita occidentale. Ebbene, quell’immigrato stava per diventare cittadino italiano perché sul piano strettamente formale aveva tutti i requisiti richiesti per esserlo. Un automatismo per cui avrebbe ricevuto la cittadinanza italiana a chi disprezzava talmente i nostri valori da uccidere la figlia.

Attenzione, dunque, alla falsa equazione secondo cui più è facile ottenere la cittadinanza, prima si arriva all’integrazione. Ci sono fette di popolazione che rispondono alla sharia, non alla Costituzione. La strada predicata (e praticata) dalla sinistra, oltre che dal mondo cattolico, contempla per chi arriva molti diritti e nessun dovere, e questo rischia di pregiudicare in partenza l'adesione a una comune identità collettiva. Il problema vero è quello di governare l’immigrazione senza cedimenti buonisti alle sole ragioni degli altri, perché questo significa non integrazione, ma semplicemente la resa. La cittadinanza non può essere un regalo, ma un’adesione convinta ai valori fondanti della nostra società, ed è inutile girarci intorno: per una parte non marginale del mondo islamico è la religione che definisce l'identità, non la cittadinanza.

 

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