Intervista all'ex boss
"Cosa Nostra è una fabbrica di morte". Giovanni Brusca fa la vittima: chi collabora con la giustizia viene sempre denigrato
Colui che fece detonare le bombe che fecero saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta - Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani - è uscito dal carcere. Giovanni Brusca, ex boss della Mafia si è raccontato in un’intervista realizzata da Zek e Arte France per un documentario su Cosa Nostra e riportata dal Corriere della Sera. Le parole risalgono a cinque anni fa, ma mai come adesso diventano attuali vista la fine della pena del fidato killer di Totò Riina: “Ho riflettuto e ho deciso di rilasciare questa intervista, non so dove mi porta, cosa succederà, spero solo di essere capito. Ho deciso di farlo per fare i conti con me stesso, perché è arrivato il momento di metterci la faccia, anche se non posso per motivi di sicurezza, ma è nello spirito e nell’anima che è nata l’intenzione di farlo”.
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“Di poter - spiega Brusca, che nelle immagini indossa dei guanti, degli occhiali scuri e un passamontagna che lascia intravedere soltanto le labbra e qualche ciuffo di una folta barba - chiedere scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime, a cui ho creato tanto dolore e tanto dispiacere. Ho cercato in questi anni da collaboratore di giustizia di dare il mio contributo, il più possibile, e dare un minimo di spiegazione ai tanti che cercano verità e giustizia”.
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“E chiedo scusa principalmente a mio figlio e a mia moglie, che per causa mia hanno sofferto e stanno pagando anche indirettamente quelle che sono state le mie scelte di vita: prima da mafioso, poi da collaboratore di giustizia, perché purtroppo nel nostro Paese chi collabora con la giustizia viene sempre denigrato, viene sempre disprezzato, quando invece credo che sia una scelta di vita importantissima, morale, giudiziaria ma soprattutto umana. Perché - conclude l’estratto dell’intervista a Brusca - consente di mettere fine a questo, Cosa nostra, che io chiamo una catena di morte, una fabbrica di morte, né più né meno. Un’agonia continua”.