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Le offese a Sergio Mattarella e il rischio della compressione del diritto di cronaca

Andrea Amata
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La libertà di espressione è un valore universale, che dobbiamo invocare ancora più nei confronti di persone con cui non siamo d'accordo. E allora, al di là di certi suoi tweet a volte troppo fuori dalle righe e poco condivisibili, la perquisizione nei confronti di Marco Gervasoni non può che essere colta come un segnale preoccupante che può nuocere alla libertà di manifestazione del pensiero. Per configurare un'offesa all'onore e al prestigio del Capo dello Stato l'autore della stessa, trascritta su una qualsiasi piattaforma social, dovrebbe abbandonarsi ad un esplicito tono di disprezzo. Nel caso di Gervasoni il «cinguettio» incriminato così recitava: «Il vero capo del regime sanitocratico è #Mattarella ma ancora qualcuno dell'opposizione si appella a lui. Ci sono o ci fanno?». Accusare di vilipendio l'estensore di una frase, che si inserisce nel diritto di critica, su una questione di interesse pubblico e di strettissima attualità ha il sapore amaro della censura che comprime quella libertà di dibattito che ogni democrazia autentica dovrebbe preservare.

 

 

Ci sono sopraffini costituzionalisti che hanno contestato le modalità di gestione dell'emergenza del governo Conte II che, attraverso atti di rango amministrativo (Dpcm), limitava l'esercizio dei diritti costituzionali. Considerando che Mattarella ha implicitamente autorizzato ciò che in molti hanno qualificato come «abuso» dei Dpcm, ritenuti distorsivi delle libertà sancite dalla Carta, e incarnando il vertice istituzionale che vigila sulla legge fondamentale dello Stato, su di lui non dovrebbe agire una sorta di barriera neutralizzante le note di disapprovazione che in un regime democratico si declinano in libere formulazioni critiche. Inquisire un professore universitario, scrittore e giornalista per un'opinione critica indirizzata al Capo dello Stato, come fosse un eversore cospirazionista, è il sintomo di una sproporzione che può ledere la sostanza democratica che si nutre di pluralismo. Il nostro tempo sta già tollerando quelle forme di censure automatizzate dagli algoritmi che stabiliscono preventivamente la penetrabilità di un messaggio, dunque rendendo più diffuse talune informazioni a discapito di altre, con il rischio di assuefarci ad un processo selettivo del pensiero che conduce all'omologazione, al piattume del conformismo.

 

 

Durante l'emergenza pandemica qualsiasi voce che ne contestava la gestione sanitaria veniva zittita e derubricata come «negazionista» del virus, equiparando quelle critiche al pensiero antistorico e anti scientifico di chi nega il genocidio degli ebrei. Un metodo dialettico che non riconosce diritto di cittadinanza all'opinione critica tanto da associarla a una nefandezza della memoria. Se la società, che si dichiara aperta, autorizza lo scrutinio giudiziario delle opinioni si auto-infligge una limitazione alla libertà di espressione che è l'estrinsecazione di ciò che matura dal pensiero. Così il requisito di «apertura» della società, per definirsi liberale, si comprime con il rischio di insonorizzare il pensiero, renderlo acusticamente afono. Se la neolingua del politicamente corretto diviene l'unica mediazione lessicale autorizzata a pronunciarsi siamo condannati ad uniformarci al suo codice immiserito. Se ogni pensiero, prima di essere comunicato, deve sottoporsi al lavaggio omologante, affinché si depuri con l'«ammorbidente» del politicamente corretto, rischiamo di impoverirci culturalmente e di ghettizzarci nella retorica del luogo comune. Una società che non si concede la facoltà di sfatare le convenzioni ha rinunciato alla libertà per simularne l'esercizio.

 

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