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Sono l'ultimo che ha visto lo sguardo di Borsellino. Così il pentito ha dato il segnale per la strage

Giorgia Peretti
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Il ritorno in tv di Michele Santoro è sancito da uno speciale evento di La 7, “Speciale Mafia, la ricerca della verità” condotto da Enrico Mentana. Si intitola "Nient'altro che la verità", il libro inchiesta realizzato da Michele Santoro che sarà pubblicato giovedì 29 aprile. lo storico giornalista e conduttore televisivo ha ricostruito trent'anni di storia della mafia in Italia, con rivelazioni molto particolari sulla strage di via D'Amelio, ai danni del giudice Paolo Borsellino.

 

 

 

In particolare, le confessioni del killer di Cosa Nostra, Maurizio Avola, un uomo che alle spalle ha ottanta omicidi e che è stato protagonista della stagione delle stragi. “L’ho incontrato per caso. Mi sono chiesto dov’è finita Cosa Nostra? Un’organizzazione che ha enormi poteri politici e grandissimi poteri finanziari. Dal '94 non ci sono più omicidi, stragi eclatanti. Qualcuno può pensare che Cosa Nostra sia una cosa finita. Io mi sono messo a studiare Matteo Messina Denaro, e sono arrivato a Maurizio Avola”, dichiara Michele Santoro.

Durante la puntata evento arrivano le dichiarazioni esclusive del killer. “Tu mi hai raccontato che la strage la fanno i palermitani della famiglia Graviano, con i catanesi e con Matteo Messina Denaro”, inizia Santoro. Poi la parola passa al pentito: “Io già sapevo che dovevo colpire un magistrato, me lo dice Aldo Ercolano un mesetto prima. Sapevamo già il tipo di esplosivo da utilizzare, il detonatore pure. La tecnica la sapevo”, dice Avola. Perché si decide di usare una 126 e non un’altra macchina? Domanda Santoro. Da questo momento inizia il racconto della preparazione della macchina destinata ad uccidere Borsellino: “Macchina piccolina, non dà sospetto. Io il giorno prima avevo preparato l’esplosivo, è un T4 ci è arrivato dall’ex Jugoslavia insieme ad armi pesanti come bazooka, kalashnikov. Aggiusto questo esplosivo e si parlava che sabato sera dovevamo essere pronti. La macchina è stata imbottita da me e altre due persone. Io ho imbottito tutto il seggiolino di sotto. Ne ho messi 12 di panetti me lo ricordo bene”, risponde il killer.

 

 

 

In tutto erano 60 kg di esplosivo, e nel primo pomeriggio la macchina era già carica e pronta all’uso", continua Avola. Paolo Borsellino nella mattina del 19 luglio del 1992 si reca con la sua auto nell’abitazione della madre, molto anziana, a via D’Amelio. Suona al citofono e mentre aspetta la risposta della mamma, l’intera organizzazione prepara la sua fine.

“In realtà già il sabato eravamo pronti. C’era una persona, uno dei componenti, che dava il segnale che stava arrivando il dottor Borsellino a casa della mamma", racconta Avola.  Arriviamo a domenica, il giorno della strage, i fratelli Gange e lo stesso Totò Cancemi sono appostati per controllare i movimenti del giudice in via D’Amelio: “Noi eravamo già nell’appartamento, ci servivano 10 minuti. Io passo davanti con il borsone con scritto Polizia, normale come se fossi un poliziotto, che venivo da un’altra città. Sapevamo quale fosse la macchina del magistrato, pensavo che la sua macchina fosse quella al centro della scorta ma poi mi giro e vedo che la prima era proprio la sua. Borsellino era solo in macchin". Senza autista?, chiede Santoro. "Solo, solo era”, racconta Avola che poi continua: “L’obiettivo non erano i ragazzi della scorta, era lui. Mi accendo la sigaretta, lo guardo così, mi soffermo, mi rigiro e faccio il segnale”. Alla fine, mi sono allontanato non di corsa a passo elevato. Lui – si riferisce a Graviano- mi dà un 10/12 secondi per coprirmi e mettermi al coperto dal palazzo e dal cemento a quel punto il mio lavoro era finito".

 

 

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