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Uccise due poliziotti a Trieste, ora una perizia apre la strada al processo: Maran era capace di intendere e volere

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«Stephan Meran Alejandro Augusto al momento dei fatti, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere». L’uomo, arrestato per l’omicidio di due poliziotti avvenuto negli uffici della questura di Trieste il 4 ottobre 2019, è dunque imputabile per essersi impossessato della pistola d’ordinanza di Pierluigi Rotta e avergli sparato tre volte, così come per aver fatto fuoco quattro volte contro l’agente scelto Matteo Demenego, intervenuto per soccorrere il collega.

Sono le conclusioni dei periti, i quali - chiamati a rispondere alle domande del gip di Trieste Massimo Tomassini - escludono il vizio totale di mente, ma riconoscono l’articolo 89 del codice penale - ossia il vizio parziale - che viste le imputazioni potrebbe comunque portare, in caso di condanna, al massimo della pena. Il 30enne originario di Santo Domingo potrebbe uccidere ancora, visto che mostra «tratti di pericolosità sociale»: si trova in una «condizione psicopatologica instabile e precaria, complicata da variabili di carattere istituzionale, che potrebbe esporlo al rischio di commettere atti contro le persone o le cose e contro il suo stesso interesse», si legge nella perizia in possesso dell’Adnkronos. Le sue condizioni di salute - dal 9 febbraio è in regime di Tso presso il reparto psichiatrico di Borgo Trento a Verona - non sono così gravi da escludere la capacità di stare nel processo dove dovrebbe rispondere anche di sette tentati omicidi nei confronti di altrettanti poliziotti che hanno provato a bloccargli la fuga. In circa 130 pagine gli psichiatri Mario Novello, Ariadna Baez e Gaetano Savarese e la psicologa Erika Jakovcic ripercorrono la storia di questo «gigante con i piedi d’argilla» e il suo passato fatto di abusi, consumo di marijuana ed episodi controversi fino al ricovero psichiatrico in Germania nel 2018 resosi necessario dopo che aveva sfondato, alla guida di un’auto, una barriera di protezione dell’aeroporto di Monaco ed era salito su un aereo chiedendo di raggiungere il Brasile. I periti riconoscono un «disturbo post traumatico da stress complicato successivo al grave episodio di abuso (...) avvenuto nell’infanzia», sottolineano come 
Meran si sentisse perseguitato, vittima di un complotto e in una «condizione di scompenso psicotico acuto» ha reagito con un’aggressività inaspettata. 

Elementi che non fanno vacillare le sue responsabilità sebbene «ha sempre attribuito all’agente Demenego o Rotta comportamenti tali da rendere giustificabili - ai suoi occhi - le sue reazioni, seppure con contenuti e modalità inverosimili e incompatibili che lo rendono poco attendibile, pur avendo su altri aspetti ricordi precisi e perfino puntuali». Uno sguardo mal interpretato, una domanda di troppo, una frase inverosimile da parte degli agenti sono di volta in volta le risposte fornite - «per proteggersi dai sensi di colpa» - su quanto accaduto. «Io mi sento innocente, mi sono difeso. Non volevo uccidere, l’ho fatto solo per difendermi. Mi aspetto una cosa giusta...una pena minima», le parole ripetute da Meran a chi gli chiede spiegazioni. «Certamente dal mattino del 4 ottobre», l’imputato «si trovava in una condizione delirante di terrore psicotico e si sentiva immerso in una atmosfera persecutoria in cui percepiva l’esistenza di un complotto per ucciderlo, anche se era in grado di relazionarsi, di muoversi e di agire concretamente nella realtà», scrivono i periti. Il 30enne «non aveva dormito la notte tormentato dai deliri e dalle allucinazioni ed era rimasto terrorizzato e sconvolto dalla ’minaccia di morte da parte dell’ex cliente', (avvenuta quella mattina, ndr)» che lo porta a «scalzare una sconosciuta dallo scooter per fuggire e andare a cercare rifugio e protezione dal fratello». L’episodio del motorino, «era chiaramente un evento di significato sintomatologico anziché un furto». La miccia è l’arrivo davanti all’abitazione di alcune macchine della polizia e di un’ambulanza, ma rassicurato dalla presenza del fratello accetta di andare in questura. «In tale ’atmosfera delirantè» entra negli uffici apparentemente tranquillo e accondiscendente, ma in realtà «in stato di grande allarme e di grande paura, sentendosi in trappola insieme al fratello (subito separato da lui con aumento del panico e del senso di pericolo), e in tale stato è entrato in bagno e ne è uscito creando quella che lui stesso ha definito ’la lotta per la pistola'».

Il suo racconto è eccitato. «Non ho mai imparato a sparare, non ho mai ucciso nessuno, non ho mai avuto uso di pistola, mi sono sentito posseduto dalla pistola in quel momento, in quel momento era l’adrenalina che mi saliva addosso, è inspiegabile quello che ho sentito, è una cosa che…non è per tutti la pistola, la pistola è una cosa che non è per tutti, io mi sono sentito posseduto, io mi sono sentito un Dio in quel momento, grande come un Dio, avere la pistola in mano, impugnare la pistola, non so se capite». Racconta la lotta contro l’agente Rotta, 34enne originario di Pozzuoli, gli spari contro Demenego, 31 anni originario di Velletri. In quei pochissimi minuti «non ci sono stati elementi o fattori di alcun tipo che permettano di affermare che si era creata una discontinuità nel campo della coscienza con perdita di contatto con la realtà quale, ad esempio, una condizione di de-realizzazione con restringimento del campo della coscienza oppure una condizione di sospensione del campo della coscienza provocata da fattori psicopatologici o neuropsichici o di origine tossica». L’arma «sembra essere diventata una protesi protettiva per la sua insicurezza e per il suo terrore psicotico. Impugnando la prima pistola e ancora di più con la seconda, è passato dalla posizione di paura/terrore e ritiro/frustrazione alla posizione di onnipotenza in cui, sentendosi come un dio, finalmente si liberava dalla oppressione delle inibizioni che lo avevano tenuto sotto scacco per tutta la vita imprigionandolo nel ruolo di vittima». 

Meran «è passato in un istante dalla dimensione di paura», alla dimensione «dell’onnipotenza. La complessità di tale repentino cambiamento, che affonda le sue radici nella complessità della storia psicopatologica del periziando dapprima nell’infanzia e poi nella dimensione della psicosi correlata all’uso della marijuana, a parere del collegio non può non essere compresa all’interno della dimensione di ’infermità’ in cui si è innescata la dinamica dei fatti. Egli si trovava all’interno della stessa atmosfera delirante in cui si trovava al momento dell’avvio della dinamica che ha portato ai fatti. E questo nonostante la apparente o formale coerenza della azione quasi militare condotta dal periziando», concludono gli esperti. Se la difesa di Meran si dice «sconcertata» per una perizia che solo in parte riconosce le problematiche dell’imputato, l’avvocato della famiglia Rotta è alquanto soddisfatta e confida «di poter dimostrare in un processo le responsabilità di Meran». 

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