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Giorno del ricordo, Roberto Menia: a sinistra c'è ancora chi vuole cancellare lo sterminio della foibe

Alberto Fraja
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Oggi è il 10 febbraio, il Giorno del Ricordo. Per quei pochi che dovessero (colpevolmente) ignorarlo, si tratta della ricorrenza in cui si rinnova la memoria dei massacri di quindicimila tra uomini e donne gettati vivi nelle foibe (cavità carsiche) della Venezia Giulia dopo la fine della seconda guerra mondiale e dell’esodo giuliano dalmata, vale a dire l’emigrazione forzata di circa trecentomila italiani cacciati dalle proprie terre dai comunisti di Tito con la complicità dei compagni nostrali. 

 

C’è da dire che quando si discute di foibe, qualche negazionista o riduzionista della domenica salta sempre su. Orbene, si trattasse di qualche iscritto all’Anpi testardamente aggrappato alla narrazione bugiarda di quegli eventi, la cosa non preoccuperebbe più di tanto. Basterebbe ignorarlo come si fa con quei simpatici barbogi brontoloni avanti con l’età che ripetono a pappagallo sempre le stesse cose. 
Il problema è che di pisquani che insistono nel minimizzare sugli italiani (e non solo) gettati in quegli orribili inghiottitoi, sull’orrore della famiglie sterminate, sul filo di ferro che legava a gruppi i polsi delle vittime sulla sommità di quelle voragini per risparmiare sui proiettili (sparo al primo che cadendo nella fossa si porta dietro tutti gli altri), ce n’è ancora troppi in circolazione. Ragione per la quale, conviene senz’altro sforzarsi per ristabilire un minimo di verità. 

Lo facciamo con Roberto Menia. Parlamentare dal 1994 al 2013, oggi responsabile del Dipartimento Italiani all’Estero di Fratelli d’Italia, Menia è un profondo conoscitore di quella tremenda pagina di storia. Non meraviglia dunque che sia proprio lui il padre della legge sul «Giorno del Ricordo». 

 

Menia c’è ancora un po’ troppa gente in giro che nega il dramma delle foibe, non le pare? 
«Purtroppo è così. E la cosa che più mi ripugna è che questi signori che negano l’evidenza storica lo fanno con cattiveria e senza rispetto alcuno per le vittime e per gli esodati. Io mi chiedo: ma che gusto c’è a farsi del male tra italiani? Una domanda alla quale dovrebbero rispondere quelle amministrazioni comunali, quelle associazioni che hanno ancora il coraggio di organizzare eventi, convegni, manifestazoni giustificazionisti e/o negazionisti». 
Ho sempre avuto l’impressione che da parte slovena si sia disposti a riconoscere la realtà delle foibe a patto che gli italiani riconoscano, a loro volta, le proprie (presunte) responsabilità che quegli orrori avrebbero generato. 
«Concordo, È una pretesa assurda. Perché la verità è che non vi è nulla di comparabile a quel che accade in quegli anni. Dietro quella mattanza vi era una precisa strategia: consumare una pulizia etnica ai danni delle popolazioni italiane. L’Istria e la Dalmazia andavano deitalianizzate a tutti i costi. D’altro canto basti vedere quanto accaduto dopo l’implosione della ex Jugoslavia, quando è deflagrata una ferocissima guerra tra minoranze etniche. Ecco perché è indispensabile non dimenticare che all’origine delle foibe c’era la studiata e precisa volontà di cacciare gli italiani dalle proprie terre, dalle proprie italianissime città. In quelle zone si respirava e si respira ancora la storia di Roma antica (un esempio: l’arena di Pola fu costruita prima del Colosseo), di Venezia. Zara è una città bizantina». 
Qualcuno afferma che quelle terre, durante il Fascismo, furono vittime di una italianizzazione forzata. 
«Non è affatto vero. Ribadisco. Stiamo parlando di città, di territori che ci appartengono da sempre. L’irredentismo (che viene prima del Fascismo) in fondo cosa fu? La legittima richiesta di riprenderci, con le armi, quello che era nostro. Fu l’Italia sabauda, dopo la prima guerra mondiale vinta, a riacquisire non solo Trento, Triste e Bolzano ma anche Pola, Capodistria, e Zara». 
Su quei drammatici fatti lei ha scritto un libro fondamentale «10 febbraio. Dalle Foibe all’esodo» (Pagine Editore). 
«In quel volume racconto cinquanta storie inoppugnabili di italiani perseguitati dai titini. Ho raccolto personalmente quelle testimonianze affinché la memoria di quei drammi non vada dispersa. Il tempo passa purtroppo e rischia di cancellare ogni cosa. Il ricordo è un dovere civile, prima che storico. Questa è stata e continua ad essere la battaglia della mia vita».

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