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“Io sono libero”, il racconto di Peppe Scopelliti dopo la triste esperienza carceraria

Onorevole anche dietro le sbarre, senza mai perdere dignità

Francesco Storace
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Quando a parlare dal carcere è un politico, le orecchie si attizzano. Ma non è una confessione di reati, perché a Giuseppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio Calabria e governatore della sua regione, già gliel’hanno fatta scontare troppa, con quegli incredibili sei anni per abuso di ufficio.

Ma è interessante anche il politico che parla del carcere, della detenzione con onore e dignità, in un libro intervista che racconta una vita dietro le sbarre. E ti chiedi, avendo conosciuto e apprezzato l’uomo, come faccia a restare vivo un senso di rispetto per le istituzioni anche dopo quel calvario. Ma Peppe Scopelliti è fatto così, come riconosce nella sua prefazione un suo amico di sempre come Gianfranco Fini.

Il libro è con un titolo ad effetto, “Io sono libero”, ma non è scritto – in tandem con l’intervistatore, il giornalista Franco Attanasio – per descrivere quello che fu, in quella cella di Reggio Calabria. Perché i colloqui si svolgevano in diretta, proprio mentre Scopelliti espiava quella pena esagerata in carcere.

E quindi quel senso di libertà resta integro anche se dietro le sbarre, in galera. E anche se ti chiedi il perché di tanto accanimento. Gli stessi fatti finiscono con l’assoluzione di altri amministratori a pochi chilometri – a Messina – ma a Reggio no. E sia, sospira il detenuto eccellente.

C’è spazio anche, ovviamente, per ricordare l’ingresso in carcere, il saluto alla famiglia, l’incontro con i detenuti che vedeva per la prima volta in vita sua. 

“Quella mattina mi presentai all’ingresso del carcere con un grande trolley di colore amaranto ma, da lì a poco, mi sarei reso conto che quel voluminoso bagaglio non mi sarebbe servito a nulla”. E spiega: “Ho subito constatato che in carcere l’abbigliamento è prevalentemente sportivo; le tute, ad esempio, oltre ad essere comode, rappresentano un simbolo di uguaglianza e di condivisione di questa esperienza.

Sono poche le situazioni nelle quali si utilizza un abbigliamento “formale” (pantalone, camicia e golfino). Generalmente, accade in occasione dei colloqui che i detenuti hanno con i familiari o con gli avvocati, oppure nelle poche circostanze in cui le porte del carcere si aprono al mondo esterno: eventi organizzati da associazioni di volontariato, convegni, dibattiti”.

E resta nella memoria di Peppe Scopelliti proprio l’ingresso in carcere, accolto “come una persona per bene, che è semplicemente ri-masta vittima, suo malgrado, di un “incidente di percorso”. Idem dagli agenti di polizia penitenziaria. 

“Con la stessa gentilezza con cui, generalmente, viene trattata la gran parte dei detenuti. Ci tengo ad evidenziare questo aspetto perché, contrariamente a quanto si crede, è notevole la propensione delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria ad alleviare la sofferenza e il dolore provocati dalla privazione della libertà. Sono persone che esprimono una presenza positiva: mostrano autorevolezza nel momento in cui è necessario far rispettare le regole; di contro, manifestano una grande umanità nel rapportarsi con qualunque detenuto”.

E come si vive in carcere? “In questi luoghi di sofferenza, la solidarietà, il mutuo soccorso, la condivisione, il sostegno reciproco diventano sentimenti prevalenti. Direi assoluti. Ricordo, con emozione, quando appena entrato nella sezione detentiva, sentii dire da lontano: “Peppe, buongiorno!”. In quel momento ho avuto la sensazione che ogni barriera si fosse abbattuta con naturalezza e che non ci fosse un clima ostile nei miei confronti. La mia prima impressione si è poi rafforzata nel tempo. Non potrò mai dimenticare il gesto di C.Q., storico capo ultras della Reggina, finito in carcere qualche mese prima per un piccolo furto. Durante il periodo natalizio C. mi regalò un pandoro con su scritto: “Uniti sempre, nella lotta e nel dolore. T.v.t.b.”. Anche O.B. mi fece ritrovare un messaggio che racchiudeva lo stesso sentimento; lo lasciò all’interno della bilancina (l’armadietto) in concomitanza del suo trasferimento alla sezione “lavoranti”. O., con cui avevo condiviso la cella per oltre 6 mesi, scriveva: “Caro Peppe, ogni esperienza, per quanto brutta possa essere, è sempre positiva. Certo, nel caso tuo, lascia il tempo che trova. Di te mi resta la consapevolezza della tua umiltà (ed anche la rottura di balle di voler fare sempre dolci). Cono- scendoti un po’, sono sicuro che tornerai a volare come un uomo libero, come un uomo forte della sua verità, che por- ta dentro il suo zainetto un’esperienza in più. Che la luce del buon Dio illumini sempre il tuo cammino e che possa finalmente gioire con la tua meravigliosa famiglia. T.v.b.”

Terribile però l’ingresso in cella per chi ha trascorso una vita nel nome della legalità. “Sentire il rumore metallico delle chiavi e delle porte di ferro che si chiudono alle tue spalle ti fa avvertire una sensazione di distacco dal mondo reale. Come se si perdesse il filo conduttore della vita e si accedesse ad una dimensione sconosciuta. E poi l’incognita: la paura e l’ansia generate da un “circuito”, quello del carcere, che appare come un abisso profondo che vorresti superare, ma che non riesci a misurare”.

Il libro vola e racconta l’imbarazzo interno, probabilmente le emozioni, che si provano al primo impatto con i familiari che ti vengono a trovare in carcere. “Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Non sapevo neppure cosa dovessi fare, come mi dovessi comportare. Non avevo nulla con me. Solo con il tempo avrei imparato, anzi mi avrebbero spiegato, che durante gli incontri è consuetudine portare qualcosa da sgranocchiare con i propri cari. Cioccolatini, succhi di frutta, patatine, brioche e, appunto, l’acqua. Al primo colloquio Barbara è venuta con Greta e con mio fratello Tino. È stato sicuramente un incontro molto particolare. Mi scrutavano trattenendo l’emozione, mentre io mi sforzavo di apparire il più possibile sereno; di convincerli che, nonostante tutto, stavo bene. Dissi che dovevamo darci forza a vicenda, restare uniti, non farci sopraffare dallo scoramento. Non dovevamo mollare, questo era l’imperativo per tutti”.

La domanda che segue svela l’uomo quando sta in prigione. “Durante la detenzione si diventa più sensibili oppure ci si incattivisce?”. Scopelliti non mente. “Il carcere segna. Inevitabilmente, impone un’esperienza di vita non prevista né programmata (almeno nel mio caso), assolutamente negativa. Sotto un altro punto di vista, invece, amplifica la sensibilità delle persone, porta ad attribuire un valore particolare alle cose semplici ed essenziali della vita: quelle a cui spesso non si pensa, come lo spazio, il tempo, il silenzio, le ombre, certi gesti. È come se ci si riappropriasse di un pezzo di sé smarrito. Durante un colloquio con i familiari ho visto un detenuto riabbracciare i suoi bambini, dopo diversi mesi, con un trasporto indescrivibile. E commuoversi. Ecco, in quel gesto, ho percepito il dramma e la bellezza, allo stesso tempo, di un padre assolto da ogni castigo e da ogni colpa dai suoi stessi figli. Una scena che mi ha fatto piangere. È la potenza della vita su ciò che la vita stessa, a volte, nega. Anche vedere un ragazzo che viene scarcerato è un momento di grande emozione: significa avere un’al- tra possibilità, dopo aver conosciuto la privazione della libertà. E tu sei lì ad accompagnarlo con lo sguardo, a condividere la sua felicità”.

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