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La Sapienza, parla il professor Federico Masini candidato al ruolo di rettore: "Guardiamo a Oriente e Occidente"

Pietro De Leo
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«L’università è l’istituzione per eccellenza in grado di unire i popoli». Il Tempo è a colloquio con il professor Federico Masini, docente di lingua e letteratura cinese a La Sapienza di Roma e candidato, nella tornata che inizia domani, al ruolo di rettore dell’Ateneo. «La mia è una storia internazionale, con esperienze di studio e ricerca svolte anche negli Stati Uniti a Berkeley e all’Università di Pechino. Potrei, credo, aiutare la Sapienza a diventare un’università che guardi sia ad Oriente che ad Occidente».

Parola chiave internazionalizzazione.
«Sì. Anche se in quest’ultimo periodo, chiaramente, ci sono maggiori difficoltà, La Sapienza ha sempre mandato i suoi studenti a studiare in giro per il mondo, anche in quei Paesi con cui ci sono meno rapporti, penso ad esempio allo Yemen, alla Siria, all’Iran. Un’università, proprio perché fondata sulla conoscenza, può attraversare tutte le barriere».

Se guardiamo al mondo c’è anche un rovescio della medaglia: troppi talenti, anche fra i ricercatori, fanno le valigie e non tornano.
«E’ un tema fondamentale. Noi dobbiamo dare una prospettiva a quanti lavorano o si sono formati nell’Ateneo. Certo, non è che tutti quei ricercatori bravi della Sapienza poi possono diventare docenti in Sapienza, è oggettivamente impossibile. Però ci sono dei casi in cui abbiamo formato ottimi elementi che poi sono andati a via, e quindi abbiamo ‘fornito’ delle eccellenze all’esterno. Ed è stato un problema. La questione, prima va affrontata concettualmente e poi praticamente».

Praticamente significa nel campo delle risorse?
«Su questo punto, La Sapienza può fare molto. L’Ateneo è un’enorme amministrazione pubblica, con un bilancio in attivo, grazie a chi ci ha preceduto. Ma ulteriori risorse possono anche essere reperite all’esterno del sistema universitario pubblico, attraverso progetti internazionali. Anche lì, è un circolo virtuoso: più sapremo valorizzare le eccellenze interne, più sapremo attirare le risorse esterne».

Altro tema è che c’è molta vitalità imprenditoriale da parte dei più giovani, ma i progetti spesso hanno vita breve perché non sono bene «accompagnati». Cosa può fare un’università come La Sapienza?
«Già in tempi molto lontani l’Ateneo ha sviluppato i cosiddetti ‘incubatori’. Per fare questo, però, è necessario avere un contesto amministrativo agile. Sul punto c’è molto da fare. L’obiettivo è mettere una grande università pubblica in grado di competere con gli incubatori delle università private».

Non possiamo parlare di università senza affrontare l’impatto del Covid sull’insegnamento. Come è stato alla Sapienza?
«Le matricole avrebbero meritato più attenzione in Sapienza, e questo forse è mancato. Purtroppo non li abbiamo portati tutti in Aula. Sono gli studenti che avevano già perduto metà dello scorso anno scolastico e fatto la maturità online. Poi ci sono gli studenti dell’area medica. Su di loro, il Covid ha avuto un effetto molto negativo. La trasformazione progressiva del Policlinico Umberto I nel più grande ospedale Covid del Lazio è stata sicuramente un’iniziativa giustificata dal contesto pandemico. Ma forse non si è riflettuto abbastanza sul fatto che ciò ha privato gli studenti di medicina, quelli delle professioni sanitarie e gli specializzandi di un pezzo della loro formazione. Su questo bisognava essere più cauti».

Lei, in quanto sinologo, balzò agli onori delle cronache per essere stato citato nella lettera di Xi Jinping al Corriere della Sera lo scorso anno. Quanto di rischio e quanto di opportunità c’è nei rapporti con la Cina?
«Se noi riusciamo ad interagire, in maniera intelligente, possiamo trasformare la spinta di trasformazione che sta avendo la Cina in un’opportunità per noi. Se troviamo degli spazi di interazione con loro, potremmo in qualche modo innanzitutto ‘contaminarli', ma anche far sì che ci sia un beneficio anche per il nostro sistema».

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