L'ex giallorosso Nela: tutti attenti al Covid e gli altri malati muoiono
Sebino Nela non ci sta. E come faceva quando scendeva in campo, corre a difesa dei compagni in difficoltà. Questa volta, però, la squadra della quale fa parte è purtroppo ben più ampia (circa 18 milioni di persone nel mondo) ed il nemico da battere è di quelli che non si arrendono. «La cosa brutta del cancro è che gioisci, dici ho vinto e poi scopri che a distanza di sei, otto mesi ritorna», disse qualche mese fa in un’intervista. Lo contatto al telefono, è in macchina. Risponde con voce pacata, durerà poco. «Sono appena uscito dall’ospedale e sto tornando a casa – mi dice – l’8 ottobre ho subìto l’ennesima operazione, ora sto bene». Il discorso si sposta subito sugli altri, perché Sebino è così, altruista e sempre pronto ad esporsi per aiutare chi ne ha bisogno.
«Sono davvero indignato per ciò che sta accadendo. Da troppi mesi, ormai, tutta l’attenzione si è catalizzata sul Covid-19. Intanto migliaia di persone con altre patologie mortali come il cancro, la leucemia e i problemi cardiovascolari sono stati abbandonati. È una situazione vergognosa e voglio denunciarla». Corre, Sebino, corre. Come nella canzone che gli dedicò Antonello Venditti nel 1988. Questa volta sono le parole a volare sulla fascia. «Non si può privare le persone delle cure che sono per loro l’unica speranza di salvezza. Muoiono circa 500mila italiani l’anno a causa dei tumori, diversi professori mi hanno detto che il numero salirà di almeno 30mila unità entro i prossimi trentasei mesi a causa dei ritardi nelle diagnosi e nelle terapie che si stanno avendo ora che tutta l’attenzione è concentrata sul coronavirus». Nela sa di cosa parla, oltre al suo, in famiglia ci sono stati altri due casi di cancro. «Non auguro al mio peggior nemico di dover fare la chemioterapia, si sta malissimo, io ci sono passato ed è durissima. Eppure ci sono tante persone che aspettano con ansia di iniziare, perché sanno che è la loro unica chance di restare in vita. Privarli di questa possibilità è come condannarli a morte ed è un atto di assoluta inciviltà». La politica non c’entra, Sebino ci tiene a precisarlo. «Non mi interessa se a decidere siano politici di centrodestra o centrosinistra. Il problema è gravissimo e va risolto in fretta». Ma non se ne parla o quasi, perché in tv c’è il monopolio del Covid-19.
«Sono disgustato da tutti questi virologi che, spesso anche ben pagati, vanno nelle trasmissioni a dire cose che forse neanche sanno bene. Non bastassero loro, ecco pure attori, attrici, cantanti… ormai ognuno sembra legittimato a dire la sua anche se di lavoro fa tutt’altro. Io non ci tengo ad entrare nel gruppo, il mio è un appello affinché non si abbandonino migliaia di persone che stanno soffrendo e lottando contro il cronometro. Per questo tipo di malattie il tempismo è fondamentale. Io mi sono salvato per miracolo, se avessi scoperto il cancro solo qualche settimana dopo sarei stato spacciato. Pensare che c’è tanta gente che a causa di questa pandemia non ce la farà mi fa vivere male». Il paragone con il mondo del calcio è inevitabile.
«Mi sembra di poter dire senza il rischio di essere smentito che ormai ci sono malati di Serie A e malati di Serie B. Questo è ingiusto e inaccettabile». Oltre la patologia gravissima, spesso purtroppo mortale, c’è l’aspetto psicologico. Il cancro colpisce il corpo, ma soffoca l’anima. «So come ci si sente, ho visto la morte in faccia. Ci sono momenti in cui pensi di non poterne venire fuori. Ma bisogna trovare il coraggio di reagire». La voce si fa più dura, Sebino sente di dover provare a fare qualcosa, di metterci la faccia ancora una volta. «Per questi mali la cosa più importante è la prevenzione. Se ora non la si fa perché stanno tutti a pensare al Covid-19 tra pochi mesi tante persone che avrebbero potuto guarire moriranno. Io rispetto tutti, mi unisco al dolore dei parenti delle vittime del Covid-19 e piango con loro. Ma non si può pensare di curare qualcuno condannando altri. La sanità italiana conosce benissimo i numeri, occorre intervenire immediatamente». Parole ferme, decise, come era lui in campo quando dagli spalti i tifosi gli urlavano «Picchia Sebino». Ma di picchiare, in realtà, non ce n’è mai stato bisogno perché agli avversari bastava guardarlo negli occhi per capire che era meglio lasciar stare. Sebino quello sguardo ce l’ha ancora e lo avrà sempre. Quello sguardo che ha incrociato la morte e l’ha fatta andare via.