l'intervista

Parla il virologo Giorgio Palù: "Il panico non aiuta a sconfiggere il Covid"

Antonio Siberia

Abbiamo intervistato il virologo Giorgio Palù, professore emerito di microbiologia e virologia all’Università di Padova e Adjunct professor presso i dipartimenti di neurosciences and science and technology della Temple University di Philadelphia, negli Stati Uniti.
Per quali ragioni si assiste al ritorno diffuso del Covid-19 in Italia?
«Noi non abbiamo mai avuto un azzeramento dell’ondata del virus. Il virus ha avuto una mitigazione estiva e ricordi che nell’emisfero australe adesso si sta cominciando ad avere la stessa mitigazione: noi siamo ad ottobre e lì comincia la primavera ed in Brasile, Perù, Sudafrica, i casi diminuiscono ed anche la letalità. Le ragioni della mitigazione estiva, senza l’azzeramento, sono dovute a quello che la natura ha posto tra noi e il virus: la temperatura, l’irradiazione ultravioletta prolungata con le ore di luce, l’attività all’aria aperta. Ovviamente, si doveva pensare, come tutti i virus respiratori, che con l’autunno-inverno ci sarebbe stata la recrudescenza. Questo è uno dei motivi della recrudescenza ma il motivo principale è un altro».
Quale professore? 
«Se noi prendiamo tutte le altre variabili, uso del distanziamento, sanificazione, mascherine, attività varie, vediamo che l’unico vero nuovo elemento che è correlabile all’impennata esponenziale dei casi verificatasi ai primi di ottobre è stato la riapertura delle scuole. Ci sono degli studi condotti negli Stati Uniti che dimostrano come la chiusura delle scuole avesse impattato significativamente sulla riduzione dell’espansione del virus. Dal 14 al 24 di settembre si sono riaperte non solo le scuole ma è iniziata la circolazione di otto milioni di studenti. E sei lei considera che la crescita dei casi positivi rispetto al numero di nuovi tamponi praticati, è passata dall’1 al 12%, si tratta appunto di un incremento esponenziale. Guarda caso in un lasso di tempo che combacia con la riapertura delle scuole. E non solo e non tanto per l’ambiente scolastico ma per quello che viene prima e dopo la scuola, soprattutto con l’occupazione studentesca dei mezzi di trasporto. Nell’ultimo dpcm i trasporti sono rimasti inalterati, all’80% della capienza. Purtroppo non abbiamo messo a profitto la lezione che avremmo dovuto invece apprendere: il distanziamento sui mezzi, perché se si è ammassati, gomito a gomito, non basta la mascherina».

 


Lei resta favorevole a tener aperte le scuole? 
«Io resterei favorevole per le elementari e le medie, anche in presenza. Le università hanno già sperimentato la didattica a distanza, anche per le esercitazioni, come pure i licei e le classi superiori. Ma un bambino come fa a distanza? Bloccare l’educazione, la cultura e la scuola significa bloccare la nostra società».
Disinfettanti per le mani, come comportarsi?
«Spesso, ogni volta che si tocca qualcosa, usarli il più possibile».
La paura ormai è un pane quotidiano. Ha qualche suggerimento razionale da dare agli italiani? 
«La paura sta diventando un dogma, come il Covid ed il "rischiamo tutti di morire"; il virus è stato assunto quasi a nuova categoria dello spirito. Guai se non riconosciamo che questa è la pandemia del secolo, si rischia altrimenti di essere etichettati come negazionisti o quantomeno non politicamente corretti, non essendo in linea con il pensiero unico che pervade ormai tutta la comunicazione. È l’affermazione di una nuova ideologia basata sulla negazione di atteggiamenti sconvenienti (discriminazione, rifiuto dell’accoglienza, minimalismo) più che sull’affermazione di valori positivi e diritti-doveri civici. Ormai la civiltà occidentale sembra aver perso la capacità di ragionare criticamente e di fatto si dimentica che l’origine del virus è cinese e che la Cina rappresenta un nuovo potere egemone di dimensione planetaria. E poi la paura che cosa fa, dal punto di vista sanitario?».
Cosa fa?
«Fa andare al pronto soccorso persone che hanno un colpetto di tosse e rischiano di intasare attività e strutture che dovrebbero essere dedicate anche a malati affetti da patologie importanti (cardiovascolari, neoplastiche, degenerative) che hanno un significativo impatto sulla mortalità della popolazione generale. Questi pazienti invece devono attendere per le cure di cui necessitano con considerevoli rischi per la loro salute. Inoltre aumenta la possibilità di accendere focolai di contagio in ambiente ospedaliero. Non mi pare che questo dpcm disegni una proiezione di misure sanitarie innovative atte a proteggerci anche in futuro da nuove epidemie. Sa quale è il rischio? Di morire di lockdown più che di Covid-19. Come virologo posso dire che la letalità di questa malattia è relativamente bassa; studi recenti di sieroprevalenza dimostrano che la letalità si colloca tra lo 0,25 e lo 0,40%, il che vuol dire 3-4 per mille. Guardi che nel 1957 e nel 1968 son morte due milioni di persone a seguito della pandemia di influenza asiatica ed Hong Kong. Ma allora la popolazione del mondo era la metà di adesso e più giovane di quella attuale. Quindi è necessario guardare criticamente i numeri. Una patologia virale che ha una letalità del 3 per mille non è la spagnola, non è il vaiolo, non è la peste, non è Ebola, non la Sars, non è Mers e non è neanche la pandemia dell’Asiatica. Quanto alla letalità da Covid-19 l’età media di chi muore è 82 anni. Pochissime le persone giovani sotto i 50 anni, casi che poi vengono amplificati dai giornali».
I nonni possono vedere i nipoti e se sì con quali precauzioni?
«Questa è una vera preoccupazione, anche io sono nonno e cerco di avere il massimo delle precauzioni, sono in buona salute, non ho comorbosità. Ma se in casa abbiamo una persona gracile od un nonno che ha diabete, ipertensione, disturbi vascolari ed ha una età attorno agli 80 anni io gli consiglierei di fare a meno di vedere il nipote».
Bisogna fidarsi della virologia? 
«Avendo avuto il compito di rappresentare a livello nazionale ed internazionale la virologia, ci tengo a dirle che si tratta di una scienza esatta, al pari della chimica e della fisica. Nell’ambito dei diversi ricercatori di discipline biomediche i virologi sono tra quelli più insigniti di premi Nobel per la fisiologia o medicina (tre anche quest’anno), e ci tengo a ricordare al riguardo anche gli italiani Salvador Luria e Renato Dulbecco. Parlare di malattie virali non deve essere esclusività dei virologi, ma anche di epidemiologi, infettivologi, esperti di sanità pubblica, clinici, immunologi, statistici-matematici per le implicazioni che hanno le malattie infettive trasmissibili a carattere epidemico-pandemico. Quello che mi dispiace è che l’opinione pubblica imputi ai "cosiddetti virologi", quelli che come tali vengono accreditati da voi giornalisti e che spesso si accapigliano l’un l’altro o si contraddicono, la responsabilità di una comunicazione che confonde, non dà sicurezza né prospettive. Raccomanderei di investire di più in virologia, quella seria, che si occupa di vaccinologia, patogenesi molecolare, genetica ed evoluzione dei virus specie in quegli ospiti animali (mammiferi) che sono all’interfaccia con l’uomo e che saranno in futuro nuova potenziale sorgente di forme epidemiche. Anche così si potrà dire di aver tratto la giusta lezione da questa pandemia».