Scuola, l'Italia resta indietro: il piano per le lezioni non c'è
Sulla scuola continuiamo a farci del male. E non c’è emergenza che tenga. In Germania i mesi di lockdown sono stati sfruttati per organizzarsi sul post-allerta Covid. Così i ragazzi quando sono tornati in classe – gradualmente dal 4 maggio - hanno trovato spazi esterni e palestre suddivisi a pennello per una didattica di nuovo conio tarata sul momento da affrontare. In Danimarca, primo paese ad aprire gli istituti, le regole di sicurezza sono state delineate velocemente e si è pensato da subito a gestire, ad esempio, lezioni all’aperto e a ideare le cosiddette «bolle protettive», piccoli gruppi di 12 studenti che non entrano in contatto. E’ scattata la molla nell’immediato a poter meglio adeguare gli edifici alle nuove misure di tutela e agli standard igienico-sanitari imposti dal governo di Copenaghen. Più o meno come in Norvegia. Ancora, in Spagna, già prima della fine della fase uno, si sono ipotizzate «classi speciali» in vista del rientro, che non dovranno superare le 15 unità, scongiurando i casi sempre in agguato delle cosiddette «classi pollaio». Analoga situazione in Francia. Il Regno Unito ha ponderato tempestivamente tutti gli accorgimenti fin nei dettagli per l’accoglimento graduale specialmente dei più piccoli, tra banchi singoli e distanze accertate in spazi aggiuntivi messi a disposizione. E potremo continuare con gli esempi sulla pianificazione solerte nei Paesi Ue nel periodo di allarme Coronavirus che investe il recupero degli edifici e il loro adattamento strutturale. Lavori da mettere in cantiere per la messa in sicurezza accanto alla trasformazione delle aule per garantire i distanziamenti dei ragazzi e gli altri accorgimenti anti-contagio, sdoganando didattica per competenze e percorsi mirati.
E l’Italia? L’Italia ha invece perso praticamente tre mesi sull’istruzione. Solo dopo il protocollo partorito qualche giorno fa dal Comitato tecnico-scientifico insediatosi a fine aprile – già giudicato dai presidi troppo generico - istituito da Viale Trastevere per mettere a punto la ripartenza di settembre, ci si sta, infatti, tirando su le maniche. Fra qualche settimana è attesa una riunione di governo per confrontarsi oltremodo sulle linee guida. I capi di istituto insistono sul fare chiarezza chiedendo a gran voce di risolvere in primis le criticità a monte: dal potenziamento degli organici in poi. Le questioni aperte non si contano sul palmo di mano. Per la verità, abbiamo sprecato tempo (e tanto) pure da molto prima. Non siamo riusciti a farci trovare pronti sulla sfida del digitale perché non siamo stati in grado di cogliere l’occasione di stare al passo coi tempi, emergenza a prescindere. Per carenza di formazione, per colpa di politiche basate su mancati investimenti sul fronte innovazione, per il diniego di scelte consapevoli di supporto allo studio. In un contesto a dir poco difficile dell’intero comparto, che parte proprio dal capitolo edilizia sotto la lente (nelle scuole di casa nostra si conta un crollo ogni quattro giorni, stando agli ultimi dati).
Così, tra sanificazioni d’obbligo di strutture scolastiche desuete (quasi il 13% costruite prima del ‘46) e liste della spesa degli esperti su come fronteggiare il ritorno sui banchi, all’indomani dello tsunami Dad (didattica a distanza) che ha (s)travolto docenti, allievi e famiglie, solo ora – dopo mesi di stop forzato non messo a profitto - si è iniziato a ragionare su come far combaciare i pezzi di un puzzle scombinatissimo. Con dirigenti che denunciano la latitanza degli enti locali sulle proposte sottoposte per ampliare i plessi utilizzando l’escamotage di adoperare aree da riadibire e mamme e papà in ansia perpetua. Abbiamo un serio problema di education? Sì, da un pezzo, e su vari aspetti, alcuni passati sotto traccia. Ma scontiamo anche altro noi: l’essere perennemente in ritardo.
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