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Chi ha sparato su Di Maio quando aveva in pugno il Pd

Il capo politico poi ha dovuto fare un passo indietro e la trattativa con il Pd l'ha fatta tutta Conte

franco bechis
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Quando è iniziata la trattativa con Nicola Zingaretti per la formazione del nuovo governo il capo politico del M5s Luigi Di Maio aveva una certezza tutt'altro che infondata: vuoi per le pressioni esterne, vuoi per le lacerazioni interne il partito democratico avrebbe consentito la nascita del nuovo governo a qualsiasi condizione. Bastava vederli in giro: abituati ad avere le leve del comando nelle loro mani da lunghi anni senza che ciò fosse mai derivato dal consenso popolare, erano da 14 mesi in vera crisi di astinenza, con volti emaciati e sguardi disperati. Solo fare intravedere una poltroncina ministeriale a un Dario Franceschini avrebbe provocato quel che il miraggio di una borraccia d'acqua fa a chi si è sperduto da giorni nel deserto del Sahara. Insomma, per Di Maio avrebbe potuto essere una trattativa molto in discesa. E la realtà lo ha subito confermato, vista la resistenza opposta dallo stesso Zingaretti all'ipotesi di Giuseppe Conte presidente del Consiglio. E' durata lo spazio di una nottata, e il mattino dopo il Pd disperato per la sola idea di non potere riconquistare quelle poltroncine che col voto popolare non avrebbe rivisto per chissà quanti anni, si digeriva Conte premier come fosse il bocconcino più prelibato a cui aspirare. Era evidente che si sarebbero digeriti la qualunque, e Di Maio che mai era stato entusiasta di questa unione politica di fatto, ha pensato da capo del Movimento di alzare la posta di minuto in minuto per portare a casa il più possibile nella convinzione che tanto gli altri avrebbero ceduto. Ecco il motivo dei tre forni lasciati aperti, del ricorso alle urne sempre evocato come realistico, dei dieci punti poi saliti a venti e se non l'avessero impropriamente fermato prima, chissà, magari a trenta. Succede però che quando M5s e Pd si siedono finalmente al tavolo per discutere, ad alzare la posta per saggiare la resistenza dell'alleato (forse anche grazie a qualche informazione dal sen grillino sfuggita) è il Nazareno. Cominciano a dire che accettare Conte premier vale tre ministeri, e sui punti programmatici si mettono di traverso alle concessioni autostradali dei Benetton e alzano parecchia polvere sul taglio dei parlamentari che si potrà fare sì, ma in un secondo tempo e prima etc.. etc... Di Maio a quel punto intuisce al volo e ferma la melina avvolgente alzando la posta. Esce dall'incontro con il premier incaricato Conte raddoppiando i propri punti programmatici, e in caso di resistenza Pd dice con chiarezza che allora è meglio andare al voto. Alza la voce perché è sicuro che la controparte sia disposta ad accettare assai più di quel che non dicano ai tavoli. E' a questo punto però che in maniera inattesa di alza il fuoco amico. Mitragliate dall'esterno, da Marco Travaglio e dal suo Fatto quotidiano. E va beh, ci sta: sono opinioni non mascherate espresse pubblicamente dal 4 marzo 2018 in poi: per loro l'unione con il Pd è sempre stata quella più naturale e fin necessaria. Questa tesi si è ancora di più rafforzata quando il giornalista ha avuto una sorta di folgorazione per Conte, che stima ben al di sopra delle sue reali capacità (in gran parte ancora tutte da dimostrare). Stesso fuoco amico su di Maio da parte dei fedelissimi di Roberto Fico, e anche in questo caso l'opinione non era sorprendente: il gruppo non ha mai accettato l'alleanza con la Lega (senza la quale però Fico mai sarebbe diventato la terza carica della Repubblica), e dentro il M5s è sempre stata l'area più ideologica e a sinistra di un movimento che rifugge le ideologie. Ma il fuoco amico si allarga ancora di più, e alle spalle di Di Maio che sta facendo la trattativa sparano non a salve anche altri parlamentari, spesso nascosti dietro dichiarazioni anonime (ma assai identificabili) ai media tradizionali, che mettono a nudo la stessa debolezza esistente nel Pd: il timore di perdere la poltrona se si andasse al voto, e quindi il desiderio di accettare la qualunque pur di fare proseguire la legislatura. Al generale che comanda le truppe e che sta sul fronte (Di Maio, capo politico per due volte scelto dai militanti su Rousseau) si spara dunque alla schiena indebolendolo nel momento più delicato della trattativa. Una follia. Che culmina in un vero e proprio colpo di cannone. Sicuramente Travaglio, ma anche qualcuno di quei fronti interni sopra citati chiama Beppe Grillo e fa pressing perché intervenga a fermare il gioco al rialzo di Di Maio e consegni le redini della trattativa al premier Conte. Cosa che Grillo farà, prima in maniera un po' confusa con un video e poi in modo più diretto con un intervento pubblicato non a caso sul Fatto quotidiano, dove prende in giro i 20 punti ribattezzandoli “della Standa” e dice stop a qualsiasi trattativa grillina sulle poltrone. Il colpo di cannone colpisce alla schiena il capo politico del M5s che fin lì aveva lavorato per tenere insieme con difficoltà lo stato maggiore del movimento. Perfino Alessandro Di Battista, il più scettico verso il varo di un governo rossogiallo. Di Maio lo aveva incontrato, gli aveva chiesto di non schierarsi pubblicamente contro questo tentativo e perfino la disponibilità ad entrare nel nuovo esecutivo proprio per rappresentare il segno carnale di un movimento che non abdicava alla propria identità e che pur costituendo un governo con il Pd ne avrebbe controllato ogni passo. Di Battista un po' per amicizia, un po' perché capiva le difficoltà di Di Maio, non si è messo contro e non ha detto no nemmeno alla seconda ipotesi. Però quando il giorno successivo Stefano Patuanelli lo ha chiamato per dirgli “Il Pd sostiene che se entri tu nella squadra, loro sono obbligati a inserirvi Maria Elena Boschi”, Di Battista ha scritto un sms a Di Maio per tirarsi fuori: “A questo prezzo francamente non posso”. Con la cannonata di Grillo il capo politico M5s avrebbe potuto proseguire per la propria strada, evidenziando però la spaccatura interna al movimento. Di Maio ha scelto invece il passo di lato, lasciando come volevano Travaglio e Grillo (e forse anche Fico) le trattative nelle mani esclusive di Conte. Da lì in poi Di Maio non ha più trattato. E Conte lo ha fatto in condizioni di evidente debolezza: erano i piddini ad usare nei colloqui privati e pure in pubblico le frasi di Grillo come una clava. Con quella investitura il premier è stato considerato a pieno titolo del M5s. Così il Pd ha chiesto ed ottenuto come contrappeso la poltrona del ministero dell'Economia. La trattativa è andata avanti tutta così: Conte si è scelto un ministro dell'Interno tecnico, e il Pd l'ha comunque attribuito al M5s ottenendo in cambio il ministero della Difesa. Così è stata giubilata Elisabetta Trenta, e stessa sorte con le stesse logiche ha poi subito Danilo Toninelli. Poi il premier incaricato ha incontrato a tarda notte la delegazione di Leu e ha assegnato a loro il ministero della Salute dove oggi siede Roberto Speranza, senza comunicarlo né a Di Maio né ad altri del M5s. Giubilata così Giulia Grillo. Di Maio aveva chiesto al premier due cose: la prima era di affidare a Riccardo Fraccaro il posto da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e la seconda di tenere duro sul ministero del Sud affidato al M5s. Conte però si è impuntato per avere Roberto Chieppa sottosegretario e di fronte al no, allora ha lasciato il ministero del Sud al Pd, con relativa giubilazione di Barbara Lezzi. Stessa fermezza attenuata sul programma: i venti punti "Standa" sono stati archiviati e annacquati provocando come ovvio già le prime interpretazioni di parte del Pd e le inevitabili frizioni (dai Benetton alla riforma giustizia). Infine la ciliegina sulla torta : la decisione personale del premier di nominare Paolo Gentiloni commissario Ue, spiegata a tutti come vantaggio per l'Italia che dopo avere strappato la poltrona prestigiosa della concorrenza, con quel candidato avrebbe ottenuto addirittura gli affari economici, proteggendosi definitivamente da contestazioni sulle politiche di bilancio. Invece sembra che con Gentiloni il peso dell'Italia sia addirittura diminuito, visto che sembra gli venga assegnata la debole poltrona dell'Industria che non ebbero problema ad affidare in passato all'allora esordiente di Forza Italia, Antonio Tajani. Un flop sicuro, una discreta calata di braghe del M5s di fronte a un Pd che era facilissimo mettere nel sacco. Questo è certo, e se ne sono accorti perfino quelli che hanno provocato nei fatti questa Caporetto. Sembra che ce l'abbiano tutti con Di Maio, che a chi glielo fa presente oggi risponde: “Mi avete attaccato e sabotato mentre stavo conducendo la trattativa, e ora vi lamentate pure?”. Ora personalmente non ho particolare simpatia per Di Maio. E non gli ho più rivolto la parola da quando un mattino mi assalì per una vignetta di Osho che non gli era andata a genio. Oggettivamente però di questa mini disfatta non è responsabile. Nessun generale potrebbe vincere una battaglia se le sue truppe invece di avere fucili spianati verso il nemico, seminano trappole dove fare cadere chi le guida. Cari parlamentari e (in parte) militanti grillini, la prossima volta se come capo politico volete scegliervi Travaglio, fatelo su Rousseau senza barare, no?

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