Non fu la scorta il dramma di Borsellino Ma uno Stato sempre nemico
Computer che non arrivavano, pm che gli toglievano, finanzieri che non indagavano. Così fu solo
Anche ieri come è giusto a Palermo e in tutta Italia si è ricordata come ogni 19 luglio da 27 anni, la strage di via D'Amelio dove fu trucidato insieme a tutta la sua scorta il procuratore Paolo Borsellino. Celebrazione un po' diversa dalle altre anche perché avvenuta a pochi giorni dalla liberazione del segreto su alcune sue audizioni avvenute negli anni (fra il 1984 e il 1991) di fronte alla commissione antimafia. Il velo dopo tanti anni è stato tolto dall'attuale commissione guidata da Nicola Morra, ed è possibile leggere ed ascoltare anche con emozione dalla voce di Borsellino una storia che è fra le grandi vergogne di questo paese. Ha suscitato emozione all'indomani di questa decisione il primo audio reso pubblico, che risaliva appunto al 1984, in cui il procuratore, allora ascoltato insieme al giudice istruttore Giovanni Falcone, raccontava prima della impossibilità di utilizzare il primo computer Honeywell assegnato agli uffici di Palermo per motivi burocratici (nessuno lo collaudava e installava), e poi del blocco degli straordinari degli autisti delle auto blindate che ne consentiva l'utilizzo solo al mattino. Borsellino raccontò così che il mattino veniva accompagnato con auto blindata in tribunale, e poi riaccompagnato a casa a pranzo. Il pomeriggio e la sera però doveva muoversi con la propria auto personale non blindata. Un parlamentare della commissione allora ironizzò : “così riacquista la sua libertà”, e Borsellino rispose sarcastico: “La libertà magari la riacquisto utilizzando la mia macchina. Però non vedo che senso abbia fare perdere la libertà di mattina per poi essere libero di essere ucciso la sera”. Quelle parole hanno emozionato dopo tanti anni, ma onestamente la battuta è fra le meno significative nelle audizioni cui è stato tolto il segreto. Era il 1984, e otto anni dopo Borsellino sarebbe saltato in aria con l'auto blindata e tutta la sua scorta che nel frattempo sia lui che Falcone ed altri magistrati avevano ottenuto a tempo pieno. A dare l'impressione invece della assoluta solitudine con cui combatteva il magistrato sono molte altre istantanee che talvolta si ripresentano negli anni tali e quali, senza che nessuno risolvesse nulla. Con un Borsellino apertamente osteggiato da chiunque avrebbe dovuto aiutarlo: lo Stato in tutte le sue forme, le forze di polizia, il Csm, l'Associazione magistrati, i governi, i ministeri della Giustizia. Fin dalla prima assegnazione alla procura di Marsala, dove il Csm gli levò di torno anche i pochi magistrati che c'erano, quasi con uno sfottò: “Borsellino è bravo, può lavorare da solo”. Lui bravo era, ma per il controllo del territorio aveva sì e no una sola volante per 106 contrade da vigilare. La polizia come i carabinieri mal sopportavano all'epoca di essere diretti da un magistrato, e la guardia di finanza faceva di tutto per ostacolare le indagini patrimoniali di Borsellino, fornendo risposte a sue richieste “in media dopo due anni”, come lui spiega in quelle pagine. Sono impressionanti alcuni racconti. Come quello proprio sulla mancanza di volanti a Marsala: “Mi ricordavo che una volta Tommaso Buscetta aveva detto che gli era stato presentato un capomafia di Bagheria mentre egli passeggiava in Via Ruggero Settimo; nel mio scrupolo io gli avevo contestato:'Ma come passeggiava in Via Ruggero Settimo, se lei era latitante ?' 'No, signor giudice, perché nel nostro ambiente si sapeva che fra le due e le quattro c'è la smonta, volanti non ne circolano, conseguentemente noi latitanti scendiamo a fare la passeggiata' (...) Io pretesi ciò: non me ne faccio niente della scorta perché ho la macchina blindata. Era inutile che mi mettessero a disposizione quattro uomini; allora ho detto: 'Mettetemene a disposizione due, così gli altri vanno a fare gli altri servizi!'. Ebbene, quegli stessi due che erano rimasti nella mia scorta furono quelli che fortunatamente, essendo io assente da Marsala, condussero questa operazione che portò alla scoperta di questi signori, di cui ora si occupa il collega giudice istruttore”. Il 4 dicembre 1989 quando la commissione antimafia andò a Trapani facendo le pulci a Borsellino per quelli che riteneva modesti successi investigativi nella lotta alla mafia, lui perse la pazienza spiegando che in procura aveva un magistrato anziano e uditori di prima nomina. Quello anziano, più esperto, glielo avevano trasferito a Sciacca, così “ho perso l'unico magistrato di tribunale che mi affianca come sostituto. In questa situazione è un po' paradossale che la commissione antimafia ci venga chiedere qual è lo stato dell'indagine sulla mafia”. E ancora Borsellino su quel cui veniva costretto dalla legislazione dell'epoca: “Oggi il procuratore della Repubblica passa il suo tempo facendo richieste per l'applicazione di decreti penali di assegni a vuoto che costituiscono l'80% ad esempio del lavoro del mio ufficio. E poiché talvolta devo pur svolgere delle indagini di mafia, lo faccio di notte”. Gli avevano tolto anche tutte le squadre investigative: “Nel mio circondario le squadre di polizia giudiziaria contavano 45 uomini. Quando mi fu sollecitata dalla procura generale una mia proposta sul loro numero, ne chiesi 49 e ne sono stati assegnati soltanto 16 (quindi da 45 che erano sono diventati 16 gli addetti alla polizia giudiziaria). Si sono ridotti a questo numero chiaramente anche per la volontà del Ministro”. E ancora a fare impressione è l'orgoglio mostrato nel 1991 davanti all'antimafia in visita a Trapani: “Io comunque non mi arrendo. Ho detto ieri al ministro Giuliano Vassalli che non alzerò le braccia. Certo, bisognerà vedere quale sarà la resistenza fisica mia e dei miei colleghi”.