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La rielezione di Sergio Mattarella è stata pianificata a tavolino

Benedetta Frucci
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Era il 28 agosto del 1998 e, avvicinandosi le votazioni per rieleggere il nuovo capo dello Stato, Francesco Verderami intervistava sul Corriere della Sera l'allora capogruppo del Ppi. La proposta che ne scaturiva era: perché non rieleggiamo Scalfaro per un secondo mandato? Il cronista chiedeva: una figura come lui? L'intervistato rispondeva: «No, io penso proprio a Scalfaro». Il politico intervistato rispondeva al nome di Sergio Mattarella. Ventitre anni dopo, da Presidente della Repubblica, sembra aver cambiato idea e, nell'ultimo anno del suo mandato, fa trapelare con fermezza di non essere disponibile a un eventuale bis. Niente di male, passano gli anni, cambiano le posizioni, come è normale che sia. E, senz' altro, la contingenza del quadro politico. Eppure, qualcosa fa sorgere il dubbio che il racconto dell'uomo mite, quasi naïf, costretto al sacrificio di un secondo mandato a causa dell'insipienza della scolaresca che popola l'aula parlamentare, non sia esattamente corrispondente al vero. Mancano pochi giorni a Natale e, nei corridoi di Palazzo Madama semideserti, un senatore dem si lascia andare a una confessione: «Per me, il prossimo capo dello Stato sarà Sergio Mattarella».

 

 

L'interlocutore è dubbioso: «Ma come, ha chiaramente escluso la sua rielezione!». Protesta. Il senatore abbassa la voce e racconta: «Hai presente quella proposta di legge depositata dal Pd, che vieta il doppio mandato presidenziale? Ebbene, sappi che è stata suggerita dall'entourage di Mattarella». L'interlocutore non capisce ed esclama: «A maggior ragione, a conferma che il Presidente è assolutamente contrario alla rielezione». Il senatore sorride con l'aria di chi la sa lunga: «Eh no, è proprio questo il punto. Il deposito di quella proposta di legge è la condizione che dal Quirinale chiedono perché Mattarella possa aprire al bis». L'interlocutore è confuso, il senatore perde la pazienza ed esclama: «È chiaro no? È la logica dei vecchi democristiani di sinistra, sopravvissuti a Tangentopoli prima e alla seconda Repubblica poi. In questo modo l'accettazione di un secondo mandato sarebbe vista come l'ultima forzatura, il sacrificio finale». «E tu che fai, la firmi?», chiede l'interlocutore. «Non la firmerò, ma vedrai come andrà a finire... voi, Mattarella, non l'avete proprio capito», risponde il senatore. E in effetti, i firmatari di quella proposta di legge, Zanda, Parrini e Bressa, coincidono anche con quell'ala dem che da sempre e a carte scoperte aveva tifato per un bis di Mattarella. Insomma, con il senno di poi qualche altro indizio c'era stato.

 

 

Pensiamo alla comunicazione. Il Quirinale non ha mai optato per una comunicazione che non fosse ultraistituzionale, eccezion fatta per la scelta di mostrare il volto umano del Presidente, che come tutti gli italiani, non può andare dal barbiere. All'improvviso però, alla scadenza del mandato, inizia a trapelare di tutto: dagli scatoloni segno dell'imminente trasloco, alla ricerca dell'appartamento ai Parioli. Per poi passare, durante le prime votazioni dove inizia ad emergere il nome di Mattarella, al silenzio. Un silenzio eloquente perché, se davvero il Presidente non avesse voluto il suo nome in lizza, siamo certi che avrebbe trovato il modo per fermare le matite dei senatori. Infine, a distruggere del tutto il racconto dell'uomo politico che subisce gli eventi, il discorso di insediamento. Mattarella non sferza come fece Napolitano il Parlamento: anzi, rivendica la centralità di quello stesso organo che l'ha portato per la seconda volta alla guida del Paese. Traccia le linee guida e il percorso per l'Italia dei prossimi anni e, spiazzando anche i più critici, mena fendenti alla magistratura. Parla della necessità di un «profondo processo riformatore» che deve interessare la magistratura, di efficienza e credibilità. Soprattutto, sferza le correnti, dicendo esplicitamente che occorre superare le «logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all'Ordine giudiziario». Si preoccupa del sentimento dei cittadini nei confronti della magistratura e della sua credibilità. Parole inedite nel settennato precedente, chiuso senza neppure un accenno alla questione giudiziaria durante il discorso di fine anno. La sensazione insomma, è che il Mattarella fine politico, rimasto nascosto tanto da dipingerlo come un mite «nonno delle istituzioni», utilizzando le parole che usò Draghi per lanciarsi nella corsa quirinalizia, sempre alle prese coni partiti discoli, sia venuto a galla e che questo settennato non abbia alcuna intenzione di svolgerlo nel ruolo di notaio, come è stato essenzialmente quello precedente, dove anche l'avvento di Draghi è stato determinato dalle mosse della politica, dall'attivismo di Renzi e dalla decisione di appoggiarlo di Salvini e Berlusconi, processo che Mattarella ha senz'altro agevolato ma non guidato come la narrativa sembra suggerire.

A giudicare dalla partenza però, la sensazione è che in questo secondo mandato vedremo più il Mattarella del niet a Paolo Savona, che resiste nelle sue volontà anche alle richieste di impeachement e alla campagna social scatenata dal M5S contro di lui, che il volto benevolo e taciturno a cui siamo stati abituati. Non sarà forse mai un Giorgio Napolitano, sovrano assoluto che trasforma la Repubblica parlamentare in una presidenziale senza passare dall'investitura popolare, ma, probabilmente, un arbitro ben deciso a far rispettare le proprie volontà.

 

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