
Quel generale austriaco che disprezzava i soldati «meridionali»

Alfred Krauss combatté gli italiani a Plezzo. «Siamo stati sconfitti solo per colpa nostra». Tutti i retroscena nel libro: «Le cause della nostra disfatta».
Gli italiani, i «meridionali» come li chiamava con disprezzo, proprio non gli piacevano. Erano, sì, i nemici del suo paese, l'impero austro-ungarico, ma non erano neppure dei grandi combattenti. Questo, in sintesi, è quanto pensava il generale Alfred Krauss il quale - dopo una brillante carriera che lo aveva portato ai vertici dell'esercito asburgico, alla guida della Scuola di Guerra di Vienna e al comando delle forze imperial-regie nei Balcani alla fine del 1914 - si trovò a comandare il I corpo d'armata austro-ungarico che, nel quadro della battaglia di Caporetto, sconfisse le truppe italiane a Plezzo nell'ottobre 1917. Era, il generale Krauss, un uomo duro e orgoglioso, nativo di Zara, convinto sostenitore della superiorità delle truppe austro-ungariche su quelle italiane. Il fatto che, dopo la disfatta di Caporetto, gli italiani abbiano avuto la capacità di reagire e di imporsi a Vittorio Veneto per lui - anche a guerra finita, quando si mise a scrivere di quegli eventi - significava ben poco: agli italiani non riconosceva valore ed eroismo, ma semmai una buona dose di fortuna frutto degli errori degli avversari. Il libro del generale Alfred Krauss sulla Grande Guerra, intitolato «Le cause della nostra disfatta», pubblicato ora in italiano a cura di Paolo Pozzato ed Enrico Pino per la casa editrice Itinera in occasione del centenario della prima guerra mondiale dimostra assai bene che l'alto ufficiale austriaco non fu mai disposto ad ammettere che gli italiani abbiamo potuto vincere la guerra per propri meriti. Le vere cause della disfatta dell'impero sarebbero state, insomma, le insufficienze operative e le scelte sbagliate del comando supremo austro-ungarico che avrebbero portato al disastro un esercito sempre e comunque superiore a quello dei propri nemici: «non esito ad affermare ancora con chiarezza e decisione che le Potenze Centrali hanno perso la loro battaglia contro il mondo solo per errori propri, che in questa lotta noi siamo stati inferiori ai nostri avversari solo per colpa nostra e non per la forza e la potenza dei nostri nemici». All'interno dello Stato Maggiore austriaco si registravano profonde divergenze sui criteri tattico-operativi della guerra di montagna: da una parte, von Conrad sosteneva che si dovesse procedere a un attacco in forze dai monti o «per cresta» muovendosi cioè lungo le alture ed evitando le valli mentre, dall'altra parte, c'era chi, come appunto Krauss, riteneva migliore un attacco «per valle» per aggirare e isolare i reparti nemici attestati in quota. Che errori, da parte del comando austro-ungarico, vi possano essere stati, anche alla luce di queste divergenze teoriche, è possibile, ma ciò non toglie che non sia affatto accettabile, sotto nessun profilo, il giudizio negativo sull'esercito italiano e sulla sua conduzione sia da parte del generale Luigi Cadorna sia da parte del generale Armando Diaz. È, semmai, vero il contrario: l'esercito italiano, soprattutto dopo il disastro di Caporetto, seppe dare di sé un prova eccezionale di valore riuscendo a reagire al trauma di quell'evento e, facendo tesoro dei propri errori, trasformando la sconfitta nella premessa di una nuova, grande vittoria. Non a caso Gabriele D'Annunzio poté parlare di Caporetto come di una «vittoria morale». Detto questo, però - e precisato, subito, il limite interpretativo e polemico del volume del generale Krauss - va anche aggiunto che la sua pubblicazione, oggi, è opportuna non solo perché si tratta di un documento importante sulla Grande Guerra vista dal «nemico», ma anche perché esso tenta un esame della sconfitta dell'impero austro-ungarico, e più in generale delle Potenze Centrali, in una prospettiva di lunga durata e non limitata alle sole cause militari. Alle origini della sconfitta ci sarebbero, infatti, secondo Alfred Krauss, accanto agli errori militari anche responsabilità politiche a cominciare dalla sottovalutazione delle difficoltà interne dell'Austria Ungheria e della Germania. Al momento dell'ingresso in guerra, i due imperi, a suo parere, lasciavano molto a desiderare in termini di «unitarietà» e di consolidata coscienza nazionale. Parlando di se stesso, e a giustificazione delle «parole dure» da lui usate nei confronti della classe politica e militare del proprio paese, Krauss si definisce un «cuore tedesco». E questa espressione è davvero indovinata e indicativa di un modo di pensare e di essere. Non è un caso, infatti, che, all'indomani della sconfitta, egli sia diventato uno degli esponenti di rilievo del mondo degli ex combattenti e un acceso sostenitore dell'idea della Grande Germania che avrebbe dovuto vedere uniti austriaci e tedeschi. Non è un caso, ancora, che, nell'aprile del 1938, al momento dell'Anschluss, egli si sia iscritto al partito nazionalsocialista e sia diventato, persino, deputato al Reichstag. La sua morte, nell'autunno di quello stesso 1938, gli impedì di vedere la firma del «Patto d'acciaio» fra Italia e Germania che avrebbe legato i due popoli, una volta nemici, accomunandoli in un tragico destino.
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